Un’eredità di storie, lavoro e tradizioni dalla voce di Loredana Ottaviani.
Ho deciso di raccontare la mia storia, un’eredità del nostro vissuto per i nostri nipoti. Quanti anni devo tornare indietro per far rivivere questi ricordi? Troppi, forse, ma ci proverò, spinta dall’amore per loro.
Sono nata e vivo ancora nella stessa casa di campagna, parte dell’azienda agricola che un tempo si chiamava “F.lli Ottaviani”. Mia nonna, la proprietaria, fu costretta dal governo a costruire la casa e la stalla nel 1933, per evitare la confisca del terreno. La nostra abitazione si trova sulla Via Appia, accanto al Canale Delle Acque Medie e vicino a Casal Delle Palme. In quel periodo, gran parte della terra di mia nonna fu ceduta alle popolazioni provenienti dal Veneto.
Prima della costruzione della casa, il terreno di mia nonna ospitava un fiorente allevamento di cavalli di razza destinati all’esercito, mucche allevate allo stato brado e greggi di pecore. Ad accudire questi animali c’era personale che viveva nelle “lestre”, grosse capanne dove cucinavano, dormivano e producevano formaggi. Durante la transumanza, in primavera ed estate, queste capanne venivano smontate e rimontate in altri terreni di proprietà, dove il bestiame pascolava.
L’azienda era allora un’attività prospera. Molti lavoratori venivano da Sezze per lavorare la terra, e le giornate erano allietate dal canto delle donne. Non ricordo le parole di quei canti, ma conservo il piacevole ricordo della serenità che trasmettevano. C’era tanta povertà, è vero, ma la gente lavorava ed era felice.
Ciò che mi è rimasto più impresso è il fatto che le donne portassero con sé i loro bambini di pochi mesi, tenendoli ai piedi del campo, in cassette di legno imbottite di stracci. Ogni tanto si allontanavano dal lavoro per allattarli. Erano bambini che dormivano e piangevano al sole e al freddo, eppure sono cresciuti diventando uomini forti! In azienda c’erano anche i figli dei vaccari, con cui ho condiviso tutti i giochi della mia infanzia.
Quando andai in prima elementare, mi ritrovai tra bambini provenienti da famiglie povere e analfabete. Ricordo scarponcini vecchi e abiti lisi, sempre gli stessi indumenti per tutti i giorni, ma lavati e puliti ogni fine settimana. A merenda, tutti mangiavano qualcosa avvolto in un cartoccetto di carta gialla. Io, invece, avevo la mia fetta di ciambellone o un panino col prosciutto. Mi vergognavo tantissimo a tirare fuori la mia merenda e allo stesso tempo morivo dalla voglia di assaggiare il contenuto di quel cartoccetto. Solo molto tempo dopo scoprii che conteneva farina di castagne e costava dieci lire.
La mia scuola era la Giovanni Cena di Casal Delle Palme. Mio padre mi raccontava che prima della sua costruzione, la prima istruzione nella palude pontina era impartita dai “Maestri di Cisterna”. Questi maestri, per combattere l’analfabetismo, compivano una vera e propria missione quotidiana, recandosi nelle campagne intrisi d’acqua, con ogni tempo, a bordo di calessini, biciclette e muli, portando un barlume di insegnamento e sostando in locali forniti dalla famiglia Caetani.
In seguito, su richiesta di Alessandro Marcucci, i Caetani donarono un pezzo di terra dove fu edificata la scuola elementare di Casal delle Palme. Ricordo con affetto e gratitudine l’edificio, che per la mia giovane età mi sembrava bellissimo e ben attrezzato. Aveva un porticato ad archi e finestre grandissime che riprendevano le stesse arcate. C’era poi un campanile molto sfilato e alto con la campanella della scuola. I banchi erano a due posti, di legno massiccio e con una pedana che mi faceva sentire molto alta. Mio padre mi raccontò che la scuola fu ultimata nel 1933, proprio mentre i miei nonni iniziavano a costruire la mia casa.
Le prime insegnanti assegnate a quella scuola erano impreparate a gestire tanta povertà e ignoranza, e spesso menefreghiste, lasciando i bambini al loro destino senza troppo impegno. Nei primi due anni di scuola, ricordo che la mia maestra, proveniente da Segni, ci lasciava spesso soli perché andava a prendere un lunghissimo caffè con un “amico” o accusava mal di testa e si assentava.
Questa situazione cambiò in terza elementare, con l’arrivo di una nuova maestra da Cisterna, di tutt’altra pasta e dirittura morale. Si mise con grande impegno a lavorare, trovandosi di fronte alunni che a malapena sapevano scrivere il loro nome. Io, invece, ero molto seguita a casa da mia madre, e per questo, mio malgrado, ero tenuta in grande considerazione dagli insegnanti.
L’estate era il tempo della grande festa della mietitura. La mia famiglia preparava il pranzo per tutti gli operai, mentre noi bambini saltellavamo sulle balle di paglia, graffiandoci le gambe. Ricordo lunghe panche allestite sotto il capannone, e mia madre e mia nonna (la proprietaria di tutto) che con grande fatica e amore cucinavano per tutti la pastasciutta e molte altre cose che ora non ricordo. In quella ricorrenza si scherzava e si beveva tanto vino.
Il papà di mia nonna era chiamato “Padron Filippo” e una volta, mentre pagava il salario settimanale agli operai, fu assalito dai briganti e due operai rimasero uccisi. In seguito, lui stesso morì di infarto.
Mio padre mi raccontò una volta, di fronte al crepitio del fuoco nel vecchio camino, della “marchiatura” delle vacche nella nostra azienda. Per l’occasione, venivano persone specializzate dalla Ciociaria che marchiavano tutti i capi nuovi. Le vacche che vivevano allo stato brado venivano incolonnate in recinti fatti dai marchiatori e una alla volta venivano marchiate a fuoco su una coscia posteriore, con un ferro incandescente. Fin dalla mattina si accendeva un grande fuoco in cui giaceva questo lungo ferro con le iniziali della mia famiglia. Il tutto si concludeva con un grande pranzo per tutti.
Sempre d’estate, quando ero ancora alle elementari, mia madre prese la patente e così iniziammo ad andare al mare al Lido di Foceverde, precisamente allo stabilimento balneare “Salesi”. Il resto delle vacanze lo trascorrevamo a Ladispoli e poi a Filettino, in montagna, dove avevamo una casa.
Con rammarico devo dire di avere pochi ricordi di Latina. La città, quando ero bambina, era molto deprimente e vuota. “…È il fantasma della nascente e promettente Littoria…”, diceva la nonna a mia madre. Mia madre era cresciuta a Roma e preferiva fare i suoi acquisti, in particolare per l’abbigliamento, nella Capitale, nei negozi di cui era cliente.
Una cosa che ricordo con simpatia e che tengo a citare è che ogni estate ospitavamo nella nostra casa due frati. Mia nonna paterna, che viveva con noi, era una grande benefattrice della Chiesa e l’iniziativa di ospitare questi due frati era sua. Questo accadeva solo durante il periodo della cosiddetta “cerca”, quando i due, muniti di cavallo e calesse, andavano a raccogliere grano e granoturco dai contadini, che poi era il sostentamento per il loro convento. A pranzo e cena, i due fraticelli ci allietavano con i loro racconti, ma spesso battibeccavano tra loro per opinioni divergenti. Fra Silvestro, il francescano, era molto affezionato a me e ricordo che le prime parole e i primi passi mi furono proprio insegnati da lui. Mi insegnò a curare le pianticelle e a recitare le filastrocche.
La domenica, io e mia cugina andavamo a messa con mia nonna a bordo di un calesse. Il viaggio era esaltante, ma arrivate sul sagrato della chiesa provavamo grande vergogna perché eravamo le uniche a usare quel mezzo. Ricordo che in quell’epoca quasi nessuno aveva la macchina e mia nonna, donna molto autoritaria e fortemente indipendente, grazie al suo calesse e alla sua bella cavalla, era libera di andare dove voleva.
Terminate le scuole elementari, i miei genitori decisero di farmi studiare in collegio, cosa che all’epoca era molto di moda, e così la mia vita ebbe un radicale cambiamento.
Ma questa è un’altra storia.
Loredana Ottaviani